Calabria ‘terra nostra’. Muccino e la paura di capire chi siamo

muccino calabria 1di Pasquale Romano - Un sogno diventato incubo. C'era molta attesa attorno al lancio del cortometraggio 'Calabria, terra mia', diretto dal regista Gabriele Muccino. Alla naturale curiosità nel vedere la nostra terra rappresentata secondo le sensazioni e le percezioni di un regista di fama internazionale si è aggiunta la triste cronaca, ovvero che il corto è diventato una sorta di 'testamento ereditario' lasciato dalla Governatrice Jole Santelli, scomparsa a pochi giorni dalla presentazione.

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Una vera e propria tempesta mediatica ha accolto il lavoro di Muccino, cortometraggio che ha visto il calabrese Raoul Bova e la compagna Rocio Morales vestire i panni dei protagonisti. Semplicemente chiunque, attraverso i social network, ha avvertito il bisogno di dire la propria opinione su 'Calabria, terra mia', cortometraggio che quindi sembra aver prodotto un primo risultato, immediato. Ovvero unire in un grande abbraccio un'intera regione, spesso e volentieri lacerata.

Il sentimento di unione che in alcuni momenti (come questo) fonde le anime dei calabresi in un corpo unico è sprizzato in modo prorompente, come fosse lava. Magari in modo disordinato, arruffone e in parte contraddittorio, ma senza dubbio affascinante. Bisogna pungere le corde dell'orgoglio per suscitare la reazione del popolo calabrese, popolo ahinoi troppo spesso accondiscendente.

Un'offesa. E' così che i calabresi, senza distinzione alcuna, hanno giudicato il corto di Muccino. Non che non ci siano le ragioni per prenderla come tale. 'Calabria, terra mia' più che uno spot della regione è un'imbarazzante sequenza di luoghi comuni e stereotipi. Un ritratto agghiacciante e datato, che intristisce e fa incazzare in parti uguali.

Può essere giusto, forse anche gradevole, rappresentare la Calabria come una terra ruspante e accogliente, dove il tempo sembra essersi fermato al dopoguerra. Dopotutto, la poesia non ha bisogno di raccontare la realtà ma al contrario è preferibile se ne allontani, scavando a mani nude nell'immaginazione di chi legge, guarda o ascolta.

Il corto girato dal regista romano però è palesemente privo di poesia, di phatos. Il risultato finale è un singolare mix tra le patinate pubblicità 'Dolce & Gabbana' e i film di Don Camillo e Peppone. Non ci si può emozionare guardando 'Calabria, terra mia', è questo l'errore imperdonabile. Non può farlo chi è nato e cresciuto in questa terra, non può farlo un ipotetico turista, il vero fruitore del lavoro di Muccino. Non sarebbe stato difficile far risaltare il naturale potere di ammaliamento dei paesaggi calabresi, evidenziarne le diversità, ricordare la storia antica e affascinante della regione.

Il risultato finale invece è un banale concentrato di errori, recitazione approssimativa e superficialità. Si percepisce il modo sbrigativo nel realizzare un prodotto dalle enormi potenzialità, purtroppo clamorosamente mancate. La mente non può che ritornare al celebre 'a cazzo di cane' della serie cult Boris. E' così che 'Calabria, terra mia' sembra essere stato ideato e concepito.

Sono infine due le sensazioni contrastanti tra loro che emergono in modo netto ed inequivocabile. La prima, positiva, legata all'importanza tout court che 'Calabria, terra mia' possiede. Legare il nome di un regista noto e apprezzato come Muccino alla regione, abbinato allo tsunami mediatico degli ultimi giorni, regala e regalerà una gigantesca e fondamentale visibilità alla Calabria. Simile visibilità in passato avuta solo per notizie di cronaca, non è un male che stavolta arrivi per un corto (bello o brutto poco importa) che prova a raccontare le bellezze della regione.

La sensazione negativa deriva invece alla Calabria che Muccino ha pensato e deciso di rappresentare. Per meglio comprendere un accadimento o anche i tratti caratteriali di un individuo non è consigliabile chiedere a chi è direttamente coinvolto, ne verrebbe fuori un giudizio parziale e artefatto. Meglio farselo spiegare da chi può offrire uno sguardo esterno e distaccato.

Allo stesso modo, se un 'non calabrese' dall'indiscutibile talento e capacità estetiche ha scelto di mettere in scena quel tipo di Calabria, deve averla pur vista con i propri occhi, respirata, vissuta seppur frettolosamente. Luoghi comuni e stereotipi, per quanto fastidiosi, sono tali in quanto capaci di raccontare in sintesi (e generalizzando) una massa più ampia. Il timore è che dentro il cortometraggio ci possa essere di più di quanto pensiamo, e di quanto tutti i calabresi hanno esternato con rabbia sui social network. Possa esserci non soltanto la Calabria che eravamo, ma (con buona pace di tutti noi) anche la Calabria che siamo. Oggi.