Minniti, “bengala” al Pd: «La “campanella” ha suonato troppe volte, adesso gente nuova. E Falcomatà la pensa come noi. Oliverio? Col “ter” non ha cambiato musica»

GIANNI MINNITI bestdi Mario Meliadò - Inutile dirlo, forse, ma è il consigliere comunale delegato a Politiche della casa ed Edilizia residenziale pubblica Giovanni Minniti, già assessore al medesimo settore, promotore primo del Laboratorio sociopolitico "Jan Palach", il vero deus ex machina dell'iniziativa che in queste ore dal Teatro Metropolitano di Reggio Calabria manda un messaggio alquanto preciso ai "grandi papaveri" del Pd calabrese.
«Credo che il risultato del 4 marzo debba far riflettere – dice Minniti al Dispaccio.it mentre l'iniziativa pubblica è alle prime battute –. Siamo davanti a una situazione straordinariamente negativa, per cui straordinari debbono essere gli interventi, i ragionamenti e i comportamenti di tutti. Della vecchia classe dirigente e di quella nuova che, mi auguro, si andrà a formare. La nostra iniziativa? Bella, mi sembra anche molto riuscita: in questo teatro c'è tanta gente che vuole bene al Partito democratico, ma non è contenta di come il partito è stato ridotto da questa classe dirigente». Rimane una spiacevole sensazione: per anni s'è detto che il partito era "nato morto", e anche il "Palach" fu tra i fautori di quella tesi, e adesso ci si deve perfino opporre a una leva politica che forse non ha saputo farlo "nascere davvero" conducendolo da ultimo a gravi sconfitte, ma che pretenderebbe di guidarne la rinascita su basi diverse conservando però la leadership. Un gattopardismo al quale voi vi opponete, questo è forse il vero senso della manifestazione, no? «C'è sicuramente un "peccato originale" relativo alla nascita del Pd; ma è anche vero che ormai sono passati dieci anni... Il Partito democratico, per la verità, un po' di storia positiva in questo Paese l'ha fatta, e noi da quella dobbiamo ripartire. Certo però il 4 di marzo scandisce l'assenza totale di un partito; e se il partito era assente, questo vuol dire che non è riuscito a fare il suo mestiere. E allora, se vogliamo ancòra tentare di rilanciare il Partito democratico riconsegnandogli centralità, dobbiamo cambiare musica. La musica si cambia cambiando classe dirigente; o, se vogliamo essere un po' meno duri e "frontali" – prova a smussare Gianni Minniti –, la vecchia classe dirigente non può certo sedersi da sola al tavolo di discussione. Ci vuole anche gente nuova, ci vuole linfa vitale nuova, altri giovani, ci vuole gente che la pensa in un altro modo. In sintesi, quindi, ci vogliono meno "mestieri" e più "passione", così com'era nato il Partito democratico».
La chiacchierata col cronista dev'essere breve perché il dibattito incalza (e durerà un'oretta in tutto, anche per una certa refrattarietà agli interventi di cui abbiamo scritto altrove, ma un po' pure per prendere meglio le distanze dagli antichi riti-litania in cui tutti i partecipanti formulano la propria giaculatoria e ci si ricompatta al buffet) però, viste le premesse e la coincidenza cronologica, non si può omettere una domanda sull'Oliverio-ter: con Angela Robbe, Maria Francesca Corigliano e Maria Teresa Fragomeni "la musica è cambiata", almeno a Germaneto? «Non voglio parlar male della Regione o del Governatore calabrese, e non ci serve. Però "a naso" mi sembra di poter dire che la musica è la stessa; per cui, cade la speranza che partendo proprio da loro, da coloro i quali possono gestire il partito anche a livello istituzionale e hanno la facoltà di sancire cambi di direzione, sembra che questa capacità manchi totalmente... Noi non la vediamo per niente».

E meno male che l'ex assessore comunale non ne voleva parlare male: un commento davvero al vetriolo per Mario Oliverio, fors'anche dettato dal peso della desilusão, di una divaricazione forte rispetto alle attese di una svolta radicale in uomini e direzione intrapresa, a un annetto dalle prossime Regionali... E un commento comunque più che amareggiato rispetto a un Pd nazionale e calabrese descritto in pratica come una barchetta in mezzo all'oceano e, per di più, senza timoniere.
Dopo i quattro-cinque interventi di militanti dello "Jan Palach", sotto gli occhi della platea "organica" al Laboratorio e di alcuni attentissimi osservatori, l'intervento conclusivo dell'esperto politico reggino calzerà questo mood, riservando pure una "chicca" importante. «Per noi è vicino il tramonto dell'esperienza politica. Ma guardate, dall'alba fino al tramonto, un'esperienza ricca di soddisfazioni come questa: un teatro pieno di militanti veri, la gente che, senza chiedere nulla, è qui», è l'esordio di Minniti. Ma la sua sarà un'arringa vera e propria, che per asprezza di spigoli ricorda un po' gli interventi di Carletto Guccione in Consiglio regionale nei confronti delle politiche di Mario Oliverio e dei suoi.

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«La "campanella" per il Pd ha suonato fin troppe volte: adesso basta!, per quanto ci riguarda», scandisce bene il consigliere comunale dèm, che sùbito dopo pare rivolgersi più che altro ai non-sodali, a chi più che aderire in quest'occasione si sta limitando ad ascoltare e a osservare con interesse quello che succede: «Noi non sappiamo iniziative come questa "dove vanno a parare". Noi non sappiamo quanto possiamo scalfire questi comportamenti, questi equilibri che stanno all'interno del partito e ci hanno portato alla rovina. Ma una cosa è certa: stasera c'è una testimonianza chiara che noi, che vogliamo bene al Partito democratico, la politica la intendiamo come contatto con il territorio. E voi siete "il territorio", e il "contatto" c'è: quindi nessuno può dire cose diverse. Il voto di marzo è stata una disfatta: l'hanno detto in tanti e lo dico pure io, del resto lo sanno pure le pietre. Una disfatta per la stessa tenuta democratica del Paese, visto che per la prima volta da quanto esiste la Repubblica italiana forze e movimenti senza Storia, ma solo discutibile cronaca, hanno vinto in questa maniera. Una cosa che non può non preoccupare».
Certo, sulla diagnosi è tutt'un'altra partita; anche per i sapientoni di turno le certezze vacillano, viste le proporzioni di questa memorabile Caporetto elettorale. «Io stesso sulle ragioni di questa sconfitta ne ho sentite di tutti i colori: chi ha parlato di riforme che sono rimaste solo parole, chi di un leader di partito che non ha voluto dialogare con nessuno... Ma la verità – ragiona Minniti – è che c'è stata soprattutto l'assenza di un intero partito. Quando sento Renzi o Gentiloni dire: "Ma noi abbiamo preso il partito che era al minimo storico e l'abbiamo rilanciato, ma noi alcune riforme le abbiamo fatte davvero", queste persone forse non hanno compreso che se anche qualche risultato positivo a livello nazionale effettivamente c'è stato, bisogna francamente capire perché il frutto di questi risultati da Roma non arriva ai territori... Evidentemente è mancato il "veicolo di trasmissione", cioè il partito e nel nostro caso il Pd, che evidentemente non esiste più nei territori. Esiste come contenitore, esiste come sommatoria di persone impegnate nelle istituzioni che gestiscono il potere e tutto naviga per il potere. Si sta andando avanti per inerzia: la ragione principale della slavina del 4 marzo è proprio questa, l'assenza totale del partito. Abbiamo lasciato Lega e Cinquestelle segnare un gol a porta vuota, per loro è stato facile imbrogliare gli italiani».

Anche qui, dunque, non esattamente caramelle. E del resto «questa, beninteso, non è un'iniziativa del Pd». Non sono parole – che pure ci sono state... - per stigmatizzare l'assenza del presidente del Consiglio regionale Nicola Irto e di tutti i consiglieri regionali piddini che avrebbero garantito partecipazione: magari... «Se fosse un'iniziativa del Pd, vedete – rimbomba la molotov di Minniti –, noi vedremmo qui sempre le stesse persone... Quelle che vediamo a Pellaro, con tutto il rispetto dei compagni di Pellaro, che danno vita a un gruppo compatto e parecchio forte, ma sempre le stesse persone che poi si spostano a Bocale, da Bocale si spostano in provincia... come le "vacche di Fanfani"! Be', io lo voglio mandare un messaggio ai compagni: non si fa così! Questo è stato uno dei motivi per cui hanno ridotto il Pd al punto in cui è ridotto. Invece, noi non possiamo essere sempre noi: dobbiamo aprirci, dobbiamo aprire, noi vogliamo le assemblee di base del partito con la gente comune come quella che è qui stasera, qui dove ci sono persone che noi conosciamo bene, che si possono tranquillamente candidare, eppure sono ai margini.... Però è gente che vuol bene al Pd; e soffre, per come l'hanno ridotto: più mestieri e meno passione, oggi il Pd è così, al contrario di come dovrebbe essere e di come suggerisce il tema della nostra iniziativa».
Fin qui l'esegesi del "titolo". Ma c'è spazio anche per il "sottotitolo": «Non ce lo siamo inventati: abbiamo parafrasato Albert Einstein, che evidenziava che non puoi risolvere un problema con lo stesso principio con cui l'hai provocato... La classe dirigente che ha distrutto il partito deve avere la bontà di capire che, da sola quantomeno, non può candidarsi a risollevare il partito – attacca Gianni Minniti –, altrimenti noi cadiamo nuovamente nella fogna».

Però «se è vero che c'è una classe dirigente che fa e disfa, io non sono convinto che la colpa del baratro possa essere solo di questa classe dirigente...». Sì, carota ma anche bastone: una responsabilità, in quota, ce l'hanno pure i militanti, in quello che è successo alle ultime Politiche. «Per le scelte più recenti del partito centrale, tantissimi se la son presa con Roma: beh, non è così. Roma ha fatto quelle scelte perché, con noi, sa di poterle fare: con un partito assente, insignificante, con dirigenti che quando vanno nella Capitale non vanno insieme, ma separatamente per chiedere cose personali per sé, cosa ci potevamo aspettare?», è la dura rampogna. Quindi, «basta sfogatoi: dobbiamo fare un passo in avanti», è l'invito alla "base".
La parte conclusiva dell'intervento del consigliere comunale reggino è volta alla "Primavera di Reggio": «C'era l'impegno diretto di tantissimi militanti: noi vogliamo che tornino di nuovo in campo, contribuendo a formare una nuova classe dirigente. Ma non può farla nascere quella vecchia... e io sono fortemente preoccupato. Sono stato due volte a Lamezia Terme, e posso assicurarvi che i ragionamenti sono gli stessi di sempre: nessuno vuol perdere i propri privilegi. Però, personalmente, io non credo proprio che la vecchia classe dirigente provinciale e regionale sia molto disponibile a cedere: non ci credo assolutamente. Questa è gente attaccata alle cose, alle "poltrone". Continueranno a fare quel che stanno facendo... fin quando da questa parte non ci sarà una mobilitazione delle coscienze militanti, che debbono essere in grado di creare un'alternativa a loro. Mi sento di dirla, questa cosa: noi vogliamo una vera e propria ribellione. No, non coi manganelli: una ribellione di coscienza. Fare un passo in avanti tutti, diventare classe dirigente delle nostre idee, prima, e cercare spazio all'interno dei nuclei di gestione e decisionali del Pd, perché fin quando ci rimarranno loro non ci sarà spazio per niente e per nessuno».

Un muro-contro-muro culturale e politico che si vuol vivere non a colpi di scissioni più o meno fortunate, ma "dall'interno" del Pd. «E se chi ha distrutto questo partito proprio non vuol farsi da parte, quanto meno faccia spazio al tavolo delle decisioni a risorse nuove, a persone che la pensano in un'altra maniera; altrimenti, l'ho già detto, saremo sempre alle solite. Sono un po' dispiaciuto del fatto che non ci sono il presidente del Consiglio regionale e i consiglieri regionali che avevano tutti dato la propria adesione. Anche il sindaco aveva detto che sarebbe stato qui, ma aveva simultaneamente un altro impegno: ma Giuseppe Falcomatà ci teneva, perché – ecco la "chicca" – questo sindaco, oggi, è esattamente su questa posizione nostra, del laboratorio "Jan Palach"». E la cosa viene dettagliata: a Lamezia Terme Falcomatà ha chiesto con veemenza "dove fosse" il Pd mentre fioccavano le minacce e a Santa Venere bruciavano una scuola, proprio il tema dell'assenza del partito, «che determina anche limiti alla gestione amministrativa dei Comuni: poi, però, la presenza del partito l'abbiamo sentita quando si doveva fare la nuova Giunta, quando dovevano sistemare alcune cose loro... Il risultato di questo modo d'agire è che poi ci rimettiamo tutti. Noi dobbiamo pretendere che il Partito democratico, che ha i connotati per primeggiare in àmbito locale e nazionale, torni a essere quel che merita di essere. Ma riuscirci, dipende da noi: loro, da soli, state ben tranquilli, non si convinceranno mai a "cedere" quello che "hanno"».