Una piccola storia

piedineonatodi Nino Mallamaci*- Vincenzo stava lì, appiccicato alla vetrata. Gli sarebbe piaciuto fare come quand'era bambino. Alitarci sopra, e disegnare faccine con gli occhi rotondi, una linea dritta subito sotto e in mezzo, come naso, e un'altra ancora più giù, curva con le punte verso l'alto, a fare da bocca sorridente. Ma non era il posto giusto. Non si alita e non si disegna sulla vetrata che separa il corridoio dalla camera sterile dove stanno i neonati in ospedale. Le incubatrici sistemate dentro erano tante, almeno una ventina.

Lui ne vedeva una sola, la terza della seconda fila, dove suo figlio era tutto raccolto in poche decine di centimetri di spazio, i piedi quasi a contatto con la testa buttata all'indietro. "Da grande altro che pallone, pensò, farà il contorsionista, aggrappato in alto a qualche filo dentro un circo". "E poi, rifletté ancora, si dice sempre che i piedi dei calciatori devono essere piccoli, per colpire meglio il pallone. Con questi piedoni Benedetto non troverà neanche le scarpe giuste, gliele dovranno fare apposta".

Era nato venti giorni prima del tempo, ma non perché ne avesse voglia. La mamma aveva bisogno di un apparecchio da applicare al cuore per assestarne il battito, un pace maker temporaneo in attesa di quello definitivo. Per non rischiare problemi durante il parto, il dottore aveva consigliato di andare su a Milano, dove l'avrebbero assistita al meglio e il bambino sarebbe venuto fuori senza rischi per l'una e per l'altro. Vincenzo lo guardava dormire. Si interrogava sugli scherzi che fa la natura. Per tre anni non aveva fatto nulla per evitare di diventare padre. Nessuna precauzione, né lui, né Alessandra. Non per scelta. Non c'era alcun motivo che lo spingesse nell'una – avere un figlio – o nell'altra – non averne - direzione. Alla fine, dopo due anni di fidanzamento e due di matrimonio, segnati da crisi continue e fughe e ritorni, e dopo che la loro separazione era stata suggellata dalla sentenza del giudice, era bastato rivedersi una volta sola. Si erano incontrati per caso, ed evidentemente, come entrambi sapevano bene, qualcosa, tra loro, era rimasto. Un invito a cena, risate, ricordi, e gli sguardi erano tornati quelli di prima, "da pesce lesso", come si dicevano sempre.

E così, giusto quella notte si erano addormentati in due per risvegliarsi in tre. Un segnale? Ma che segnale è? Si era chiesto Vincenzo. Può significare che è destino questo stare insieme, che ha tutto un senso e andrà a finire bene. O, all'opposto, che inesorabilmente dobbiamo camminare insieme, in tre, fino a quando andrà tutto a scatafascio. Tormento, gioia, angoscia, felicità, panico, speranza. Tutto insieme, e ancora, ancora, ancora. Fino a quel giorno. Ormai era fatta. Era padre, e quella tenerezza che sentiva non l'avrebbe scambiata col tesoro più grande. Anzi: l'avrebbe scambiata con la sua vita, se fosse stato necessario. Lo guardava e cercava di cogliere qualche segno, qualche movimento, un indizio qualsiasi per poter dire: cavolo, è tutto suo padre. Lui dormiva, e Vincenzo, poco a poco, presa una sedia, calò nel sonno più profondo, come non gli succedeva da mesi.

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Vincenzo è sempre lì, dietro la vetrata e guarda il bambino nel suo ricovero. Ha sempre quella tentazione, quella delle faccine per le quali sua mamma lo rimproverava da piccolo. Si sente abbracciare da dietro le spalle. "Papà, vieni che andiamo un po' a riposare. Io sono stanco morto". "Sì, Benedetto, andiamo. Tanto lui dorme e neanche se ne accorge. Salutiamolo, però, anche se non se ne accorge: buonanotte, Vincenzo". E vanno, e scompaiono dietro l'angolo, stretti in un abbraccio.

* Avvocato e scrittore