Il corpo e l’anima di un detenuto

Carcere nuova 500 1di Gianpaolo Catanzariti* - Si chiamava Barbaro Giuseppe, 54 anni. Era di Platì. Sarebbe dovuto uscire tra un anno circa. Stava scontando una pena temporanea per un reato ostativo. E' uscito prima. Senza godere di misure alternative, però, perché la sua pena non lo consentiva. E' uscito da morto! Lo hanno trovato qualche sera fa in cella. Per accertarne le cause del decesso è stata anche disposta l'autopsia. Come se per acquietare le nostre coscienze macchiate bastasse sapere che sia morto per cause naturali e non piuttosto se fosse stato adeguatamente curato.

Aveva serie patologie.

Più volte mi scriveva e sempre, come quando andavo a trovarlo, mi confessava che aveva paura di non poter vedere i suoi 4 figli, sua moglie, i suoi genitori anziani, i suoi familiari. Lamentava di essere scarsamente seguito. Ho ritrovato una delle sue lettere. Tra le tante parole di sofferenza, nel suo italiano claudicante, come la stampella a cui si appoggiava, così scriveva "...oggi sto male e credo che continuando così da un momento all'altro posso Morire e non accetto questo fatto... qua non funziona proprio niente fanno Morire le persone....". Purtroppo ha avuto ragione, ma nessuno ci ha creduto. Si è attesa la prova irreversibile.

Svariate volte ho sollecitato le diverse carceri ed il DAP sulla necessità che venisse seguito e curato. Palmi, Melfi, Rossano, Catanzaro ed infine Vibo. La risposta costante era che le cure fossero adeguate. Aveva anche subito dei ricoveri temporanei in ospedale, dal carcere stesso. Avevo presentato un'istanza all'inizio della primavera scorsa chiedendo il differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare. L'unico strumento possibile per chi sta scontando una pena ostativa. Mi è stato risposto, alla fine di luglio 2016, in questi termini "considerato che dalla relazione sanitaria aggiornata al 12.7.2016, inviata dalla Casa Circondariale di Vibo Valentia (le cui conclusioni sono integralmente da condividere, in quanto basate sull'esame di numerose e accurate visite ed esami strumentali, dettagliatamente elencate), risulta che il detenuto, affetto da cardiopatia ischemica cronica, ectasia dell'aorta ascendente, displidemia mista, ipertensione arteriosa, emisindromesomato-sensitiva a sx da pregresso ictus cerebrale, lieve ispessimento delle carotidi bilaterale, ernia inguinale sx e lieve varicocele bilaterale, neoformazione mediastino antero-superiore retrosternale (verosimile timo-lipoma), sindrome ansiosa è in trattamento farmacologico secondo le indicazioni specialistiche, con discreto controllo del quadro clinico generale, per la deambulazione utilizza un bastone canadese ed è autonomo negli spostamenti all'interno della cella e dell'istituto, con la conseguenza che non è in condizioni di salute gravi e tali da essere incompatibili con il regime carcerario, sentito il parere del PG; P.Q.M. Rigetta le istanze".

Lo avevo visto per l'ultima volta a Vibo, il 6 agosto di quest'anno, durante la visita con Rita Bernardini. Stipato assieme agli altri detenuti, ai passeggi. Non ci è stato consentito, come avviene ovunque, di entrarci ed incontrarli. Solo accalcati, dalle sbarre. Come le belve feroci destinate ad aumentare la loro belluinità. Anche lì mi manifestava la sua lamentela ribadendomi che non sarebbe uscito vivo da lì. Così è stato!

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Ho saputo che a fine settembre era stato tradotto a Torino per partecipare ad un processo e lì aveva trovato, a suo dire, adeguate cure. Al figlio maggiore, al telefono, comunicava la sua paura per il lungo viaggio per tornare in Calabria. Non se la sentiva di affrontarlo. Sapeva che se lo avessero riportato giù avrebbe potuto non sopravvivere. Così è stato. Dopo nemmeno 48 ore dall'arrivo lo hanno trovato stecchito.

Adesso, per lo Stato italiano, sarà un numero da statistiche, alla voce, "morti in carcere". Per me, era un uomo che avrebbe meritato di andare a casa per essere curato e seguito anche dall'affetto dei suoi cari. Un uomo che ha avuto la sventura di essere nato a Platì, comune infetto di una regione, la Calabria, considerata carne da macello e laboratorio di manipolazione socio-genetica.

Al momento della riconsegna della salma, ai poveri familiari viene comunicata un'ordinanza del Questore con cui, per ragioni di ordine pubblico, vengono imposti funerali privati e da celebrare in cimitero piuttosto che in Chiesa. Come dire, un detenuto non può rivendicare la cura del proprio corpo in vita e nemmeno le modalità della cura della propria anima post mortem.

Ma il parroco di Platì non si è dato per vinto, presentando un ricorso al Ministro Alfano avverso l'imposizione e la scelta del luogo alla stessa Chiesa della celebrazione del rito religioso. Insomma, un'inversione di ingerenza tra Stato e Chiesa. Una Chiesa che si vede inibire, nel caso specifico,l'edificio destinato al culto.

Siamo nel Bel Paese, lanciato a folle corse verso il cambiamento, verso un Si' che intende sburocratizzare la nazione ma che non è in grado di decidere, senza alcun dubbio, che un uomo debba essere curato a casa piuttosto che aspettarne il decesso in una cella lontano dai suoi affetti. Uno Stato che non riesce a garantire la salute dell'individuo, specie quello custodito nelle patrie galere, risulta fortemente delegittimato nell'azione di tutela della salute pubblica.

Sono comunque sicuro che alla VI Marcia del 6 novembre, organizzata dal Partito Radicale Nonviolento nel nome di Marco Pannella e di Papa Francesco, la sua anima, senza stampella, sarà con noi. Con noi che dobbiamo lottare insistentemente, perché l'umanità nelle carceri passa anche attraverso la tutela e la salvaguardia del diritto fondamentale alla salute.

*avvocato e ref. osservatorio carcere Ucpi