"La 'ndrangheta può radicarsi ovunque se non è ben contrastata nei territori di origine"

cortedicassazione 500di Angela Panzera - "É condivisibile il giudizio espresso dalla Corte territoriale che ha ritenuto di poter individuare i connotati distintivi dell'associazione per delinquere di stampo mafioso, sussumendo correttamente la vicenda in esame nel paradigma dell'articolo 416 bis codice penale anche con riferimento alle articolazioni territoriali esterne alla regione Calabria".

È questo il sigillo apposto dalla Corte di Cassazione sul troncone ordinario del processo "Crimine". Nei giorni scorsi infatti, i giudici della seconda sezione hanno depositato le motivazioni con cui il 18 maggio scorso hanno sostanzialmente confermato la sentenza emessa dalla Corte d'Appello reggina. Gli Ermellini, così come accaduto per il troncone abbreviato hanno sposato l'impianto accusatorio costruito tassello dopo tassello dai pm Antonio De Bernardo, Marialuisa Miranda e Giovanni Musarò (questi ultimi due adesso in forza rispettivamente al Tribunale di Napoli e alla Procura antimafia di Roma) che hanno costituito un vero pool antimafia insieme ai magistrati Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Nicola Gratteri. Pignatone e Prestipino dopo anni proficui e costellati di numerose indagini adesso sono rispettivamente procuratore capo e procuratore aggiunto alla Procura Capitolina, mentre Gratteri è procuratore capo di Catanzaro. Un anno strategico per la Dda reggina il 2010 che ha visto poi, nel luglio culminare anni di lavoro con il fermo della maxi-inchiesta "Crimine". Il pronunciamento della Suprema Corte ha interessato una trentina di imputati, giudicati nel filone dell'ordinario che si è concluso in Appello con gran parte delle conferme della sentenza di primo grado, con condanne per circa due secoli di carcere. La Cassazione, pur rimandando indietro gli atti per alcuni imputati in accoglimento dei ricorsi delle difese, ha inoltre accolto quattro ricorsi promossi dalla Procura Generale con riferimento all'esclusione dell'aggravante relativa al capo promotore dell'associazione di tipo mafioso, che dovrebbe comportare un nuovo giudizio d'appello per gli imputati interessati. Infine la Cassazione ha rigettato due ricorsi della Procura Generale per altrettanti imputati, già assolti in primo e secondo grado. Al di là delle singole posizioni il dato importante è che anche in questo caso è stato confermato il principio giuridico dell' unitarietà della 'ndrangheta. La Dda reggina è infatti, riuscita a dimostrare che la 'ndrangheta è una e sola. Non importa se le 'ndrine siano sparse a Siderno, a Rosarno, a Genova, Milano, Torino, in Svizzera, Canada e Australia. Tutte dipendono da "Mamma-Calabria", tutte devono rendere sempre conto al "Crimine". La testa dell'organizzazione è qui e adesso la Cassazione ha posto un nuovo sigillo. Ampia parte delle motivazioni ha proprio riguardato questo aspetto. "Sono stati correttamente considerati, in particolare, - scrive il Collegio giudicante- i moduli organizzativi della neoformazione, univocamente ispirati ai canoni d'impostazione strutturale della 'ndrangheta, attraverso tipici rituali di affiliazione e ripartizione dei ruoli, segretezza del vincolo, rapporti di comparaggio o comparatico fra gli adepti, rispetto del vincolo gerarchico, uso di un linguaggio criptico. Raggiunta la prova dei connotati distintivi della 'ndrangheta e del collegamento con la casa madre, la nuova formazione associativa è stata ritenuta in sé pericolosa per l'ordine pubblico, indipendentemente dalla manifestazione di forza intimidatrice nel contesto ambientale in cui era radicata. I singoli partecipanti, che erano, di certo, ben consapevoli di non aderire ad un circolo ricreativo o ad un'associazione no-profit (..) sono stati giustamente chiamati a rispondere del reato di cui all'articolo 416 bis codice penale (associazione per delinquere di stampo mafioso ndr)".

Il troncone ordinario del maxiprocesso "Crimine" aveva visto, la Corte d'Appello di Reggio Calabria, confermare le 23 condanne emesse il 19 luglio del 2013 dal Tribunale di Locri, presieduto da Alfredo Sicuro. Anche nel secondo grado di giudizio, così come richiesto dai sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio De Bernardo, la Corte presieduta dal giudice Costa ha confermato gli oltre 200 anni di carcere disposti in primo grado. Fondamentali nel corpus accusatorio, così come avvenuto anche in Cassazione, furono le intercettazioni ambientali, captate a casa del boss Giuseppe Pelle, nella lavanderia Ape Green di Siderno di Giuseppe Commisso, "u mastru",nell'aranceto rosarnese del capo-crimine Mico Oppedisano ma, soprattutto, le acquisizioni ottenute nel corso della festa a Polsi, per le celebrazioni in onore della Madonna della Montagna dove ogni anno venivano ratificate le nuove cariche di 'ndrangheta. In definitiva dopo le decine e decine di condanne confermate in abbreviato, nel maggio scorso sono arrivate anche quelle del troncone ordinario. Dopo la decisione di un gup, quella del Tribunale di Locri, e di ben due Corti D'appello e di due sezioni della Corte di Cassazione ormai il principio giuridico per cui la «ndrangheta è un'organizzazione unitaria governata da un organismo di vertice, la Provincia», è diventato storia giuridica e processuale. Una storia che adesso, a sette anni di distanza, vede apposta la parola "fine" sul maxi-processo "Crimine", ma che di fatto vede un nuovo inizio per tutte le Dda italiane nella lotta alle organizzazioni mafiose. Altro aspetto fondamentale analizzato all'interno delle motivazioni redatte dagli Ermellini è stato quello riguardante la cosiddetta "mafia silente", soprattutto per quanto riguarda le "locali" 'ndranghetiste presenti all'Estero. Nelle arringhe delle difese si è sentito per anni che i soggetti accusati di aver diretto, o comunque fatto parte dell'associazione mafiosa operante fuori dai confini italiani, non era classificabile come un'associazione 'ndranghetista in quanto non erano stati registrati, o comunque non presenti nel processo "Crimine", fatti-reato che manifesterebbero lo strapotere e la violenza della 'ndrine sui territori esteri. La Cassazione lo scrive a chiare lettere: la loro presenza è registrabile a prescindere da manifestazioni palesi, questo il senso.

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"La mafia, e più specificamente la 'ndrangheta che di essa è certamente- scrivono i giudici della Cassazione" l'espressione di maggiore pericolosità, ha oramai travalicato i limiti dell'area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso. L'immediatezza e l'alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note spietatezza dei metodi, ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di diffusività sia talmente elevato che il messaggio - seppur adombrato - della violenza (di quella specifica violenza di cui sono capaci le organizzazione mafiose) esprima un linguaggio universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine. Sicché, sembra quasi anacronistico ipotizzare che possano ancora esistere, nel nostro Paese (ed anche oltreconfine), contesti ambientali davvero refrattari all'imposizione mafiosa. E non è certo azzardato ritenere che la mafia - e segnatamente la 'ndrangheta - specie se non contrastata efficacemente nei territori di origine, sia in grado, ove lo voglia, di radicarsi ovunque, pur se con rischio variabile, per imporre i propri strumenti persuasivi in vista del conseguimento di illeciti obiettivi. Nè si pensi che la proliferazione o delocalizzazione della detta mafia sia frutto di mere smanie espansionistiche, per la conquista di nuove frontiere, o di mera colonizzazione di aree produttive ovunque site. Il fenomeno - a quanto pare, proprio della 'ndrangheta o più marcatamente evidente per essa - sembra dovuto, alla luce di recenti indagini giudiziarie, i cui esiti sono già pervenuti alla cognizione di questa Corte di legittimità, all'ineludibile esigenza di investire enormi risorse finanziarie od alla possibilità di rilevare - a prezzi competitivi - interi settori commerciali o rami di azienda, per la cui gestione si renda necessario il radicamento in loco, ovvero alla vera e propria vendita di danaro, ovviamente a condizioni usurarie, ad imprenditori del Nord in difficoltà, specie nell'attuale congiuntura economica, con la necessità, anche in tal caso, del radicamento in zona per assicurarsi la certezza del rientro dell'investimento con i convincenti sistemi propri del metodo mafioso. O più semplicemente, l'esportazione del detto sistema è dettata dal mero intendimento di sperimentare, fuori dai confini tradizionali, la praticabilità di certe forme di semplificazione che, attraverso l'impiego della forza intimidatrice del vincolo associativo, renda più agevole il conseguimento, anche extra moenia, di parassitane fonti reddituali ovvero di commesse ed appalti pubblici. Ora, pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è, certamente, un fuor d'opera. Ed infatti, l'immagine di una 'ndrangheta cui possa inerire un metodo "non mafioso" rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l' "in sé" della 'ndrangheta, mentre l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve, allora, spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente - se esistente - con l'organizzazione di base".

E nel maxiprocesso "Crimine" questo collegamento è stato ampiamente riscontrato e dimostrato. Dalle parole della Corte di Cassazione arriva un monito molto importante rivolto principalmente alle autorità estere. Senza citare gli Stati interessati dal fenomeno, ( che nel maxiprocesso erano Canada, Svizzera, Australia e Germania) la voce degli Ermellini è chiara e senza interferenze: svegliatevi. Una sveglia che suona da anni e che invita gli Stati attenzionati dalle Procure italiane a dotarsi di strumenti normativi per sanzionare le cosche mafiose presenti sui vari territori. Non si può più sperare nell'attività delle Dda di Reggio Calabria, Milano, Torino, Roma e Palermo. C'è troppa polvere ormai sotto i tappeti svizzeri, canadesi, australiani e tedeschi. Duisburg avrebbe dovuto insegnare qualcosa e invece dopo dieci anni ci sono ancora giudici italiani che invocano un serio intervento normativo delle varie autorità estere: la 'ndrangheta è una, così come dovrebbe essere la legge che punisce i reati mafiosi.